Di Mario Garofalo
Vi fu un periodo, non troppo lontano dai giorni dell’Italia post-unitaria, in cui una parte dell’intellettualità moderna si illuse di poter sostituire la riflessione storica con il rigore apparente dei dati fisici. In quegli anni, le misurazioni millimetriche delle forme craniche e la catalogazione delle presunte “anomalie” corporee furono elevate a metodo di comprensione della società. In questa illusione scientista trovò terreno fertile la dottrina di Cesare Lombroso, che pretendeva di leggere nell’ossatura dell’uomo la sua essenza morale e politica.
Le società si comprendevano attraverso i rapporti che le strutturavano, attraverso la palpazione dei crani non si coglieva la loro struttura reale. Coloro che ritenevano di poter rintracciare nel profilo del volto o nella conformazione mandibolare una predisposizione innata al disordine rifiutarono di riconoscere che l’ordine stesso era il prodotto di processi storici, di conflitti, di trasformazioni economiche e culturali. Il cosiddetto “criminale nato” finì così per incarnare una figura necessaria a un apparato sociale in cerca di giustificazioni per i propri fallimenti: anziché interrogarsi sulle condizioni materiali che generavano miseria, protesta e conflitto, si preferì attribuire ogni tensione a un difetto individuale, trasformando il disagio sociale in una patologia della natura umana.
Il problema venne così spostato dal terreno della storia a quello della natura: trucco antico, sempre efficace, che serviva a legittimare l’ineguaglianza evitando di considerare il suo fondamento sociale.
La forza della teoria lombrosiana risiedette soprattutto nella sua utilità politica. Essa rassicurava chi deteneva il potere, offrendo una visione del mondo semplice, controllabile, meccanica. Ammettere che il conflitto sociale fosse prodotto da contraddizioni economiche e politiche avrebbe richiesto un coraggio maggiore e un’assunzione di responsabilità più impegnativa. Era così molto più comodo credere che la protesta fosse un fenomeno organico, quasi una malattia, riconoscere la protesta come espressione legittima di un’urgenza collettiva risultava evitato.
Un altro elemento decisivo fu la rapidissima diffusione di quella pseudo-scienza nel senso comune. Poliziotti, giornalisti, magistrati e cittadini ripetevano le tesi lombrosiane come verità rivelate. Ne nacque una cultura popolare intrisa di falsa razionalità, presentata come moderna e progressiva, capace di perpetuare pregiudizi antichi e gerarchie sociali consolidate. Si trattò di un vero folklore mascherato da scienza, reso ancora più insidioso dal prestigio apparente della sua autorità accademica.
Una scienza sociale autentica separava sempre l’individuo dall’ambiente: immaginare l’uomo come una pianta che cresce sempre allo stesso modo, a prescindere dal terreno, significava ignorare la realtà concreta della storia. Gli esseri umani erano il prodotto di processi storici: mutavano quando mutavano le condizioni, le istituzioni, le forme della produzione e della cultura. Ogni teoria che sostituiva questa evidenza con una presunta oggettività biologica finiva per riprodurre il punto di vista dei gruppi dominanti e rafforzava una politica di conservazione sociale travestita da scienza.
Tale dottrina scientifica appariva neutra, mentre coincideva con una forma di politica che sottraeva coraggio e responsabilità, dissimulando l’ordine sociale come destino naturale.
Forse fu proprio per questo che riuscì ad attrarre tante menti: offriva al potere il lusso di evitare ogni interrogatorio profondo e agli individui l’illusione che tutto fosse già scritto nei lineamenti del volto. La storia, invece, continuava a rivelare il suo carattere dinamico: costruzione, conflitto, trasformazione.
Finché questa consapevolezza rimase in ombra, si continuò a scambiare per diagnosi ciò che, in verità, era un atto di pura conservazione sociale, destinato a perpetuare privilegi e gerarchie consolidate.

Commenti
Posta un commento