Di Mario Garofalo
"Quando gli ultimi si muovono, talvolta lo fanno per riformare l'ordine: spesso tentano, con la sola forza che hanno, di rovesciarlo".
Nel discorso storico dominante sulla formazione dello Stato italiano, il Mezzogiorno appare spesso come una zavorra, un'appendice refrattaria al progresso, oppure come terreno di devianza e arretratezza. All'interno di questa narrazione coloniale, il fenomeno del brigantaggio è stato archiviato nella categoria rassicurante e criminalizzante del “disordine”.
Eppure, nella polvere sollevata dai passi dei contadini armati si coglie qualcosa di diverso rispetto al semplice eco del caos: emerge il profilo frammentario e radicale di una soggettività subalternativa che insorge.
Il brigante appare tutt'altro che un'anomalia nel racconto nazionale, costituendo piuttosto il suo specchio deformante: rivela la violenza originaria della modernità unificatrice, costruita attraverso espropriazione, annientamento e rimozione, in assenza di consenso.
Di conseguenza, stupisce poco che le carte dei generali – come quella di Govone – risultano più veritiere rispetto a molti libri di storia scolastica: il brigantaggio nasce dalla fama, dalla terra negata, dall'umiliazione ripetuta. Si tratta di un tentativo – anche confuso, anche armato – di spezzare la catena della subordinazione, in alternativa alla semplice nostalgia per un ordine borbonico decaduto.
In quest'ottica, "l'insorgenza” contadina del Sud tra il 1860 e il 1870 assume contorni più complessi e dialettici. Oltre a configurarsi come moto reazionario, rappresenta anche un conflitto di classe in forma primitiva, una “guerra civile contadina” contrapposta alla ragione armata del nuovo Stato borghese.
La nazione si costituisce attraverso la frantumazione del corpo contadino: qui si rivela il punto cieco del Risorgimento celebrato, che ha espulso il Mezzogiorno dal tempo storico e lo ha collocato nella geografia del deficit.
La riflessione grammiciana fornisce un lessico critico utile per interpretare questo processo. Nei Quaderni del carcere, l'egemonia risulta costruzione culturale e coercizione allo stesso tempo. I briganti – pur non riuscendo ad articolare un progetto politico organico – esprimono l'assenza di un'intellettualità contadina autonoma e indicano la necessità di una presa di parola che si manifesti sia come rivolta sia come costruzione di alternativa.
Questo dato di fatto non implica la loro riduzione all'indistinto della violenza. Al contrario, rappresentano ciò che precede la coscienza organizzata: un sintomo storico, un'interruzione, un trauma. Proprio per questa ragione, continua a parlare.
Nell'epoca della globalizzazione successiva al 2008, la figura del brigante si riattiva e assume un valore simbolico nella lotta contro l'esclusione sistemica. La crisi ha generato nuove forme di espropriazione: del lavoro, del territorio, della cittadinanza. Mentre il Nord globale riscopre Marx, il Sud storico rivendica una rilettura basata sulle medesime categorie impiegate per analizzare la propria oppressione.
La storia del brigantaggio invita a ripensare la “nazione” come spazio di frattura, lontano da ogni compimento armonico. Il Mezzogiorno necessita di un riconoscimento come soggetto politico dotato di una propria genealogia della resistenza, piuttosto che di una semplice integrazione.
In quest'orizzonte, i briganti – insieme ai contadini che li sostennero – si configurano come i testimoni più scomodi della storia, risultando tutt'altro che i suoi nemici.
Bibliografia essenziale
Antonio Gramsci Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana Einaudi Torino 1975
Franco Molfese Storia del brigantaggio dopo l'Unità Feltrinelli Milano 1964
Giuseppe Galasso Il Mezzogiorno nella storia d'Italia Laterza Roma-Bari 2011
Nicola Zitara L'Unità d'Italia: nascita di una colonia Jaca Book Milano 1971
Pino Aprile Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud sono diventati meridionali Piemme Milano 2010
John Dickie L'Italia della vergogna Laterza Roma-Bari 2007
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