di Mario Garofalo
La transumanza nel Mezzogiorno offre un quadro limpido di come economia, organizzazione sociale e potere siano andati avanti per secoli seguendo logiche dure e inflessibili. Durante la stagione borbonica i pastori garantivano ricchezza e sostegno all’intero sistema economico del Regno, mentre il trono esercitava controllo e pretendeva entrate consistenti. La Dogana di Foggia operava come un apparato fiscale implacabile, con tratturi sorvegliati da cavallari incaricati di verificare orari, percorsi e consistenza delle greggi. Ai pastori venivano richiesti lavoro, resistenza e precisione; in cambio ricevevano subordinazione, vincoli severi e margini stretti di autonomia.
Il potere borbonico riduceva la transumanza a questione contabile, ignorando saperi, tecniche e tradizioni che caratterizzavano la vita pastorale. Il regno guardava al territorio come serbatoio di risorse, mentre comunità e cultura ricevevano attenzione trascurabile. La conseguenza fu un sistema che privilegiava il centro e lasciava il popolo rurale in posizione subordinata, pur essendo struttura essenziale dell’economia.
I tratturi raccontano però un’altra verità. Cappelle, fontanili e aree di sosta mostrano una civiltà capace di costruire memoria e identità attraverso luoghi che davano continuità alla vita pastorale. Lungo quei percorsi prendeva forma una cultura profonda, nutrita da riti, narrazioni e solidarietà. Ogni cavallaro inviato dal potere incarnava imposizione e disciplina, tuttavia i pastori riuscivano sempre a preservare coesione e dignità, pur dentro condizioni dure.
La lana e il bestiame alimentavano il benessere del Regno. Le comunità pastorali producevano valore continuo, sebbene fossero escluse dalle scelte decisionali. Il sistema borbonico rappresentava un modello evidente di dominazione economica: il Sud forniva risorse, il centro imponeva direzione e regole. Le popolazioni rurali, attraversate da sacrifici costanti, riuscirono comunque a mantenere memoria, identità e senso del territorio.
Il passaggio delle greggi generava tensioni con le comunità agricole. In queste situazioni intervenivano i cavallari, pronti a far valere l’autorità. Lungo i tratturi prendevano vita narrazioni, pratiche condivise e riti che tenevano unita la comunità. Cultura popolare che il potere ignorava, sebbene avesse un ruolo determinante nella sopravvivenza sociale e culturale del territorio.
Poi arrivò l’Italia unita, con promesse solenni di progresso e integrazione. La realtà offrì continuità con le pratiche precedenti: l’apparato fiscale sabaudo risultava ancora più rigido, mentre il nuovo Stato trattava il Mezzogiorno come territorio utile a finanziare l’industrializzazione del Nord. Il potere nazionale impose leggi, interventi militari e modelli amministrativi che lasciavano poco spazio alle esigenze locali. Le popolazioni meridionali vennero descritte come elementi da riformare, anziché come portatrici di cultura e competenze.
I pastori, già provati dal vecchio Regno, entrarono in un sistema statale che pretendeva ordine assoluto e modernità rapida. La cultura popolare venne ridotta a simbolo di arretratezza, anziché a risorsa preziosa. La subalternità cambiò interlocutore, passando dal trono borbonico allo Stato unitario, pur mantenendo le stesse logiche di comando calato dall’alto.
Le comunità pastorali continuarono a custodire riti, tecniche e memoria, pur vedendo ridursi il loro peso nell’economia generale. La transumanza perse centralità produttiva; tuttavia rimase simbolo di una storia costruita attraverso fatica e resistenza. Il potere richiedeva adesione e disciplina, sebbene mostrasse scarsa attenzione ai bisogni di chi viveva le terre interne. La retorica del progresso offriva una giustificazione elegante a scelte squilibrate e ulteriori esclusioni.
Da questa lunga vicenda emerge una linea precisa: imposizione dall’alto e resilienza dal basso. Dal regime borbonico al centralismo postunitario, le comunità pastorali si sono confrontate con poteri differenti, tutti convinti di poter indirizzare il territorio senza ascolto. Eppure la cultura popolare, pur compressa e svalutata, ha conservato vitalità e capacità di adattamento.
Nel Mezzogiorno di oggi la transumanza esiste ancora, sebbene in forma ridotta, e continua a parlare attraverso gesti, percorsi e paesaggi che uniscono passato e presente. Le strade bianche percorse dai pastori mostrano una storia intensa, ricca di lavoro e memoria, e rivelano un rapporto profondo tra comunità e territorio. Trasformazioni economiche e modernizzazione hanno inciso sulle aree interne, tuttavia tradizioni e competenze resistono, sostenute da allevatori che difendono razze autoctone, cooperative che valorizzano prodotti locali, giovani che recuperano antichi tratturi per costruire nuovi percorsi culturali.
Il Mezzogiorno vive ancora un divario tra centro decisionale e realtà locali. Molte politiche arrivano dall’alto con ambizioni elevate, sebbene spesso ignorino bisogni concreti di chi vive quotidianamente le aree interne. Desertificazione sociale, servizi carenti ed emigrazione giovanile indeboliscono comunità già provate da secoli di pressioni. La subalternità storica riaffiora in forme moderne, più sofisticate, pur incisive quanto quelle del passato.
Allo stesso tempo emergono energie nuove: iniziative che uniscono territorio, ambiente e cultura pastorale, progetti fondati su sostenibilità e identità locale, esperienze capaci di rivelare dignità e competenze che attraversano generazioni. La transumanza, pur ridimensionata, custodisce un valore simbolico potente: racconta un popolo tenace, capace di resistere, adattarsi e rinnovarsi.
Il presente del Mezzogiorno richiede politiche costruite insieme alle comunità, soluzioni che valorizzino competenze locali e identità territoriali, scelte che favoriscano autonomia anziché dipendenza. La storia dimostra che il potere centrale ha raramente ascoltato i territori; il futuro può cambiare attraverso collaborazione, responsabilità e rispetto delle memorie collettive.
La transumanza continua a essere simbolo di dignità rurale, rivelando un legame forte tra uomini, terre e storie che attraversano i secoli. Questa eredità indica una direzione chiara: riconoscere i saperi radicati, offrire spazio alle comunità e costruire sviluppo fondato su identità e partecipazione. Solo attraverso questa strada il Mezzogiorno può affrontare il presente con forza e visione, trasformando una storia di resistenza in una prospettiva di futuro.
Il Mezzogiorno possiede già l’energia per ribaltare gerarchie antiche: territori che chiedono ascolto, comunità che difendono memoria e dignità, giovani pronti a trasformare eredità in progetto. Il potere centrale può scegliere ascolto e cooperazione oppure restare prigioniero di vecchie logiche. Le terre interne hanno già indicato la direzione: identità forte, comunità unite, autonomia reale. O si imbocca questa strada o la distanza tra centro e periferia diventa abisso. Il Sud, però, avanza lo stesso, guidato da chi vive i paesi, custodisce i tratturi e costruisce futuro attraverso saperi antichi e volontà feroce.

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