Passa ai contenuti principali

La nuova centralità della questione meridionale – Intervento di Ferdinando Dubla (2004

 


Nel dicembre del 2004, a Taranto, in uno dei quartieri che più hanno pagato sulla propria pelle gli errori e le omissioni della politica nazionale, si tenne un dibattito sulla questione meridionale. In quell’occasione lo storico Ferdinando Dubla propose una lettura che, pur maturata vent’anni fa, conserva oggi una sorprendente attualità.
Non indulgeva in consolazioni, né in astrattezze: metteva in fila i fatti, le responsabilità, le strutture economiche che hanno prodotto e continuano a produrre un Sud subordinato. Era un’analisi severa, come deve essere ogni analisi che voglia servire non a illudere, ma a chiarire.

Riproponiamo qui integralmente il suo intervento, affinché ciascuno possa misurare quanto poco sia cambiato il cuore del problema e quanto, ancora oggi, la questione meridionale continui a essere terreno su cui si giocano il destino democratico e civile dell’intero Paese.

La nuova centralità della questione meridionale

La questione meridionale è anche questione culturale di opposizione alla globalizzazione imperialista

La “questione meridionale” (..) costituisce l’aspetto principale e più drammatico delle contraddizioni sociali vissute dalla collettività nazionale. Perché è nel Mezzogiorno d’Italia che, almeno a livello potenziale, si sono esplosivamente accumulate, nei secoli, contraddizioni profonde, ingiustizie stridenti, intollerabile sfruttamento parassitario. (..) E’, quindi, nel Meridione che la Rivoluzione italiana ripone, anche oggi, le sue maggiori speranze.”,

Angiolo Gracci (‘Gracco’, La Rivoluzione negata, La Città del Sole, 1999, pp.219/20)

La guerra acuisce la questione meridionale, le questioni meridionali. Aggrava le condizioni della propria parte proletaria, che sono Sud in quanto classe. E il pensiero meridiano, si invera solo in un nuovo meridionalismo. I comunisti, i rivoluzionari, rivendicano quel pensiero come proprio e fanno il nome del suo massimo esponente: Antonio Gramsci.

L’analisi meridionalista gramsciana ritrova la sua attualità nel crudo andamento della temperie della guerra criminale scatenata all’alba del XXI secolo.

C’è oggi ancora più bisogno di ieri di un meridionalismo di nuovo tipo, ma i cui fondamenti possono essere rintracciati in una filosofia meridionalistica che proprio da Gramsci può trovare alimento.

La stessa categoria di meridionalismo non abbraccia più il solo Sud dell’Italia, ma tutta quell’immensa periferia, entro e fuori le mura della cittadella imperialista. Bisogna ragionare della necessità della riappropriazione del ruolo di intellettuali “organici” ad un nuovo blocco storico-sociale alternativo, in qualità di comunisti e rivoluzionari che sentono ancor prima di comprendere.

Rifondare un nuovo pensiero meridionalista elaborato con ‘sentimenti meridiani’ piuttosto che porre un ‘pensiero meridiano’, costituisce oggi una rigenerazione del ruolo dell’intellettuale non funzionale al dominio delle classi dominanti e all’imperialismo, politico, culturale e militare.

In una sua forma “separata”, la questione meridionale non esiste in quanto tale: questo è il tema dominante della riflessione di Gramsci dall’Ordine Nuovo ai Quaderni, passando per il manoscritto elaborato nel 1926 e ritrovato subito dopo l’arresto, pubblicato per la prima volta nel 1930, Alcuni temi della questione meridionale, sulla rivista Stato Operaio.

La questione meridionale è parte di una questione più vasta, il carattere specifico del capitalismo italiano e il suo blocco sociale dominante di riferimento: padronato del Nord e agrari del Sud. Un carattere specifico che viene dalle modalità stesse dell’unificazione nazionale, durante e dopo il Risorgimento, con l’egemonia dei moderati e che chiama in causa anche la formazione e la funzione degli intellettuali, rielaboratori in chiave culturale, del dominio della borghesia capitalista e del blocco sociale di potere delle classi dirigenti. Le masse subalterne non possono attendersi da questa configurazione che il riprodursi “intenzionale” del folclore e del senso comune, intesi come assenza di autonomia e incapacità di egemonia. Folclore e senso comune, in questo significato storico, hanno un segno di classe.

Tenendo presente questa struttura e la sovrastruttura relativa, Gramsci tende a rovesciare i rapporti in una prospettiva di liberazione sociale: a quel blocco dominante, causa dello sfruttamento operaio e nel contempo non di una generica “arretratezza”, ma della subalternità storicamente determinata del mondo contadino del Sud, bisogna opporre l’unità fra proletariato produttivo del Nord e contadini del Mezzogiorno.

L’analisi di Gramsci esalta la necessità di una reale autonomia e indipendenza delle masse subalterne e, tra esse, dei contadini del Mezzogiorno: ma una reale autonomia e indipendenza che si conquistano nel processo storico di emancipazione e non nei retaggi funzionali al potere delle classi dominanti: altrimenti la strada sarà sempre quella di un ribellismo spontaneistico e inconsulto, destinato direttamente o indirettamente a perpetuare la subordinazione. Una subordinazione sociale che si trasforma, strutturalmente, in soggezione culturale.

Nel suo saggio del ’26, in Gramsci si avverte la difficoltà per le classi oppresse del Mezzogiorno di costituire un proprio strato di intellettuali che si opponga e sconfigga l’egemonia dei grandi intellettuali e dei quadri amministrativi che fanno da “tramite” e risultano funzionali al blocco moderato e agli interessi capitalistici.

Le elaborazioni di Gramsci parlano un linguaggio nuovo. Rintracciarne i fondamenti oggi, significa rendere asse portante della politica dei comunisti il meridionalismo nell’epoca della globalizzazione imperialista. È l’unico linguaggio, infatti, che oggi può comprendere in un unico Sud, tutti i Sud del mondo. L’attualità sta qui: Gramsci, nel fuoco della lotta politica e poi dal buio del carcere, riesce a universalizzare i contenuti meridionalistici e pone la rigenerazione dell’intellettuale come necessità di definitiva liberazione ed emancipazione. Cinquant’anni dopo, il fenomeno della «globalizzazione» tende allo sradicamento e rende periferia un numero sempre più esteso di territori e collettività: ma la linea di confine è sempre più tenue. Il confine è labile, non regge: e il Sud si estende, si allarga e cinge d’assedio la cittadella fortificata. La contaminazione tra culture di popoli rimescola continuamente la cultura, le culture dominanti. Ma l’imperialismo, culturale in questo caso, tende ad escludere, non a integrare: e lo sradicamento diventa estraniamento. Ecco perché alla globalizzazione ci si contrappone rivitalizzando le radici culturali dei popoli: perché l’altra risposta, l’omogeneizzazione sotto il dominio dell’imperialismo, è regressiva e fuori tempo storico. Il meridionalismo non può che ritrovare insieme sia il legame con i popoli e le proprie radici, sia la massima apertura all’universo-mondo. L’uno senza alcuna contrapposizione all’altra, anzi, in stretta connessione dialettica. La connessione dialettica è anche coscienza di una lotta permanente per l’emancipazione senza la perdita del senso comunitario.

Il riscatto del Mezzogiorno domanda un protagonismo dell’intera collettività subalterna, chiamata, oltre che a contrastare l’egemonia della strutturazione capitalista, a proporre una nuova egemonia costruita sull’arresto del processo di deculturizzazione e affermazione in sé di nuovi valori costituenti, proprio perché non eterodiretti, ma interni alla propria identità culturale.

Il quadro di una logica di dominio può saltare grazie all’attivismo delle popolazioni meridionali, come le lotte di Scanzano Jonico, Melfi, Termini Imprese, Acerra, ecc., hanno dimostrato. Perché qualcosa sta cambiando e in profondità: le nefaste conseguenze del liberismo capitalista stanno provocando una ribellione che trova mille strade per esprimersi, facendo riprendere la parola a chi non vuole rassegnarsi a questo becero imperialismo che non è solo economico, militare e politico, ma culturale e che rischia di disintegrare valori antichi di coesione sociale e di identità. La lotta nel Mezzogiorno deve essere accompagnata da un movimento di massa di tutto il paese: perché la posta in gioco è la ripresa di un conflitto che deve vedere protagoniste le popolazioni a riprendere in mano il loro destino.

Commenti

Post popolari in questo blog

Il 17 ottobre 1860, il popolo del Sannio disse “no” all’Italia che nasceva

La storia che non si insegna di Mario Garofalo Succede, ogni tanto, che la storia vera affiori. Quella sporca, disordinata, che non entra nei libri di scuola. Succede, ma non deve. Perché dà fastidio. E allora la si ricopre di polvere, di silenzio, di bugie. Ma la verità, anche se la seppellisci, ha radici grosse: prima o poi spacca la terra. Ottobre 1860: il Sud che non aspettava nessuno Siamo nel 1860, a ottobre, nelle terre alte del Sannio: Pettorano, Carpinone, Isernia. Paesi senza teatro dell'opera, ma con una dignità che fa tremare le montagne. I garibaldini ci arrivano baldanzosi, convinti di essere accolti come liberatori. Avevano letto i giornali, credevano ai proclami. Pensavano che il Sud aspettasse Garibaldi come il Messia. Ma il Sud non aspetta nessuno. E quel giorno lo disse a voce alta. Non ci fu la folla in festa. Non ci furono inni. Non c'era pane e sale, ma sassi e proiettili. Chi erano davvero i “briganti”? Francesco Nullo — nome da piazza, da statu...

Il brigante come soggetto subalterno: genealogia di una insorgenza contadina e critica della nazione

Di Mario Garofalo  "Quando gli ultimi si muovono, talvolta lo fanno per riformare l'ordine: spesso tentano, con la sola forza che hanno, di rovesciarlo". Nel discorso storico dominante sulla formazione dello Stato italiano, il Mezzogiorno appare spesso come una zavorra, un'appendice refrattaria al progresso, oppure come terreno di devianza e arretratezza. All'interno di questa narrazione coloniale, il fenomeno del brigantaggio è stato archiviato nella categoria rassicurante e criminalizzante del “disordine”. Eppure, nella polvere sollevata dai passi dei contadini armati si coglie qualcosa di diverso rispetto al semplice eco del caos: emerge il profilo frammentario e radicale di una soggettività subalternativa che insorge. Il brigante appare tutt'altro che un'anomalia nel racconto nazionale, costituendo piuttosto il suo specchio deformante: rivela la violenza originaria della modernità unificatrice, costruita attraverso espropriazione, annientamento e rimoz...

Nicola Zitara e la colonia chiamata Italia: il Sud visto con occhi postcoloniali

Di Mario Garofalo  Ci sono libri che, quando escono, non fanno rumore. O meglio: non lo fanno subito. Restano lì, come mine sotterranee, in attesa che qualcuno ci inciampi sopra e che la verità, sepolta dalla retorica dei vincitori, esploda. Il saggio di Nicola Zitara L'Unità d'Italia: nascita di una colonia è uno di questi. Pubblicato nel 1971, ignorato dai manuali, scansato dalle cattedre, liquidato con sufficienza dagli stessi intellettuali di sinistra, ha però scavato, anno dopo anno, una voragine sotto i piedi della “favola risorgimentale”. Zitara, calabrese di Siderno, nato nel 1927 e morto nel 2010, era un giornalista, un militante, un meridionalista senza padroni. Aveva capito – in anticipo su tutti – che l'Italia nacque come “colonia interna”: il Nord trasformato in metropoli, il Sud ridotto a periferia da sfruttare. La sua idea era chiara, e scandalosa per i benpensanti: l'Unità si presentò come liberazione di un popolo e si rivelò assoggettamento di u...