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Il giorno in cui la piazza divenne pensiero (Note sul moto di Isernia del 1857)




Mario Garofalo

per “Controsud” – Serie: Sud e coscienza civile

Ogni collettività subalterna attraversa un passaggio in cui l’istinto diventa consapevolezza. In quel punto la storia smette di essere peso e si trasforma in direzione. A Isernia, nel luglio del 1857, durante la festa di Sant’Anna, questa metamorfosi prese forma concreta. Una piazza della città, abitualmente spazio di mercato e di preghiera, si fece officina politica. Il popolo contadino, spinto dal dazio sul vino, comprese che la propria fatica derivava da rapporti costruiti dagli uomini, piuttosto che da una fatalità. In quell’attimo, la storia entrò nella vita quotidiana come coscienza collettiva.

Il dazio sul vino rappresentava la pedagogia del dominio. Ogni tassa imposta dall’alto educa chi comanda alla certezza della propria autorità e chi lavora alla docilità dell’obbedienza. Colpire il vino significava riaffermare la distanza tra chi produce e chi dispone. Per il mondo contadino, il vino incarnava la misura del lavoro, la continuità della terra, la festa dopo la fatica. Tassarlo equivaleva a ferire l’identità morale di una comunità intera. Così, la fiscalità assumeva la forma di un linguaggio politico: un codice che traduceva in economia la gerarchia sociale.

La storiografia ufficiale, legata ai paradigmi delle élite, descrisse l’episodio come tumulto minore. Eppure, nei moti che la storia considera marginali si manifesta spesso l’origine della coscienza popolare. A Isernia, la rivolta del vino fu il primo atto di una politica spontanea. Il popolo, riunendosi nella piazza, sperimentò la propria forza comune. I tamburi e le zampogne, strumenti di festa, divennero strumenti di pensiero collettivo. Dove la scrittura rimane privilegio dei ceti colti, il suono e il gesto assolvono la funzione della parola. Ogni ritmo contadino valeva come discorso, ogni battito di tamburo univa i corpi in un’idea. La piazza costruì coscienza attraverso la musica: una filosofia senza libri, carica di senso.

Il grido “Viva il Re! Giustizia per il vino!” racchiudeva la dialettica del linguaggio subalterno. Apparente fedeltà, in realtà rovesciamento simbolico. Il popolo si appropriava delle parole del potere per piegarle a significato opposto. In quella torsione semantica si riconosce il primo passo dell’egemonia dal basso. La rivoluzione comincia con un mutamento di linguaggio: quando le parole dell’autorità vengono pronunciate con senso contrario, la storia si orienta in un’altra direzione.

Le autorità osservarono la folla come fenomeno naturale, come materia priva di mente. È la rappresentazione consueta del potere di fronte alla moltitudine: la riduzione del popolo a corpo privo di pensiero. Tuttavia, quella folla possedeva un’intelligenza storica, di tipo esperienziale e concreto. Ogni contadino conosceva il legame tra dominio e ingiustizia perché lo viveva quotidianamente. In quella conoscenza tacita, fatta di gesti e di memoria, si formava una coscienza politica primitiva e profonda. La cultura popolare nasce dal lavoro, dalla sopravvivenza e dalla cooperazione, e da lì si eleva a sapere condiviso.

La borghesia municipale di Isernia mostrò la propria debolezza storica. Preferiva la quiete all’equità, l’amministrazione al governo, la paura al consenso. Le mancava la funzione pedagogica che distingue la direzione dall’imposizione. Il suo potere derivava dal silenzio del popolo; quando la piazza parlò, la sua autorità si incrinò. L’ordine che difendeva aveva radici nell’obbedienza e non nella fiducia, rivelando la fragilità di ogni potere che teme la parola collettiva. Chi domina resiste finché il popolo tace, e vacilla quando la parola si trasforma in pensiero.

La piazza di Isernia divenne scuola politica. Senza maestri, lavagne o manifesti, la folla imparò a leggere la propria condizione. La rivolta del vino fu una lezione di storia sociale vissuta in diretta. Il potere si rivelò come rapporto e come scelta tra forze. La musica prese il posto della retorica, il gesto quello della teoria. Ciò che le classi dirigenti giudicavano rozzo divenne linguaggio di libertà. In quella giornata, la festa popolare assunse la forma di un’educazione collettiva.

L’episodio di Isernia si inserisce in una lunga continuità storica che attraversa il Mezzogiorno: dal brigantaggio ai Fasci siciliani, fino alle lotte bracciantili del Novecento. Tutte queste esperienze condividono la stessa tensione: energia morale priva di organizzazione politica, spontaneità in cerca di egemonia. Il Sud rappresenta il laboratorio della subalternità e al tempo stesso la frontiera della coscienza italiana. La sua storia esprime il conflitto tra due culture: quella della rendita e quella del lavoro.

Il giorno di Sant’Anna del 1857 fu un atto fondativo. Segna la nascita di un pensiero meridionale dal basso, un pensiero che ancora oggi cerca la propria voce. La politica reale germina nei luoghi della produzione, nei palazzi del potere tanto quanto nelle piazze, nei mercati e nei campi. Ogni gesto di ribellione contadina contiene una filosofia implicita della giustizia, più viva di qualunque trattato. La libertà, in questa prospettiva, appare come consapevolezza della propria condizione e come volontà di trasformarla.

I dazi del presente gravano su ciò che produce intelligenza: sull’istruzione, sul lavoro, sulla speranza. Il Sud continua a versare tributi morali e culturali a poteri che pretendono di amministrarne perfino la memoria. Tuttavia, la lezione di Isernia resta attuale: la dignità nasce dal pensiero e il pensiero diventa forza quando si fa collettivo. La coscienza rappresenta la minaccia più profonda per ogni dominio, poiché dissolve l’idea stessa della sua eternità.

Ogni tamburo che ancora risuona in una piazza del Mezzogiorno porta con sé l’eco di quella giornata. È un suono che attraversa il tempo, voce di un popolo che si riconosce nel proprio lavoro e nella propria storia. Finché esisterà una comunità che produce e un potere che tenta di consumarne la vita, la voce di Isernia continuerà a vibrare come promessa e progetto. La piazza di allora continua a parlare: insegna che la libertà si costruisce nella coscienza, e che la coscienza collettiva costituisce il primo atto della storia che cambia.


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