Stato, finanza e grandi imprese trattano il Mezzogiorno come territorio da sfruttare e abbandonare. I lavoratori possono trasformare l’emergenza in un nuovo protagonismo collettivo, capace di rompere decenni di precarietà e marginalità.
di Mario Garofalo
La nuova crisi dell’ex Ilva, come tutte le sue crisi precedenti, appare come il risultato diretto di un modello economico che considera il Sud un serbatoio di manodopera sfruttabile e un territorio destinato a vivere tra incertezza, inquinamento e abbandono. Governi e gruppi finanziari discutono “piani di salvataggio” costruiti su criteri lontani dalle esigenze reali delle comunità, mentre migliaia di lavoratori del Mezzogiorno affrontano l’ennesima tempesta sociale e industriale.
Il nodo è chiarissimo: lo Stato interviene al servizio del capitale, tutelandone gli interessi strategici e lasciando i lavoratori in una condizione di debolezza crescente. L’aumento del rating del debito pubblico viene celebrato come un trionfo, pur rappresentando semplicemente un premio generale assegnato alla fedeltà ai meccanismi della finanza globale. Nel Sud questo significa salari stagnanti, diritti indeboliti, istituzioni lontane e un destino fatto di precarietà, emigrazione forzata e comunità svuotate.
La vicenda dell’ex Ilva illumina con forza l’architettura economica italiana: grandi imprese definite “strategiche” vengono tenute in piedi per assicurare stabilità alla borghesia industriale, mentre i costi sociali e ambientali ricadono sulle popolazioni meridionali. Disoccupazione, malattie, cassa integrazione, inquinamento, marginalità territoriale: questo è il prezzo imposto al Mezzogiorno per alimentare un sistema che accumula ricchezza altrove.
Ogni reale alternativa nasce dall’organizzazione autonoma e combattiva dei lavoratori. Consigli di fabbrica attivi e radicati possono superare la frammentazione e riaprire spazi di potere operaio, collegando stabilimenti e settori attraverso un fronte comune capace di incidere realmente sull’andamento della crisi.
La nazionalizzazione sotto controllo dei lavoratori offre una prospettiva concreta e realizzabile: reintegro degli addetti, riconversione ecologica e tecnologica degli impianti, costruzione di un’industria capace di valorizzare territorio, salute e competenze. Questa strada attribuisce finalmente potere a chi crea ricchezza e non ai vertici aziendali che hanno guidato lo stabilimento verso il disastro.
L’alternativa si presenta in modo netto: il Sud può restare periferia sacrificabile, oppure trasformarsi nel centro di una nuova soggettività operaia e popolare. Una scelta di forza collettiva può convertire l’attuale crisi in un’occasione di rinascita sociale, territoriale e industriale. L’avvenire del Mezzogiorno nasce da organizzazione, conflitto, consapevolezza e costruzione di un modello sociale fondato su giustizia, uguaglianza e protagonismo dei territori.
La storia appartiene a chi lotta. Oggi al Sud tocca riprendersi tutto ciò che gli è stato sottratto per generazioni.

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