di Mario Garofalo
La questione meridionale non nasce dall’Unità d’Italia come per magia o improvviso accidente storico, ma si manifesta come esito di rapporti di forza e strutture sociali sedimentate da secoli, laddove le classi subalterne hanno subito, nella loro vita concreta, l’esclusione dai mezzi di produzione, dalla possibilità di organizzarsi e di incidere sulle decisioni collettive; e così, quando il Sud diventa parte di un nuovo organismo statuale, ciò che prima era locale, specifico e parziale si rende visibile come problema nazionale, mostrando la distanza tra chi detiene il potere e chi vive la realtà materiale quotidiana. È questa distanza, questa assenza di strumenti di rappresentanza, che costituisce la radice della questione, più ancora delle condizioni materiali di arretratezza o di povertà, perché senza la possibilità di farsi soggetto storico, di tradurre la conoscenza dei mali sociali in pratica politica ed etica, l’analisi stessa resta sterile, astratta, incapace di produrre trasformazione.
L’interrogativo centrale non è dunque “cosa manca” in senso materiale, ma “chi deve agire” e “come può agire”: la coscienza storica delle masse, senza strumenti di mediazione e senza organizzazione collettiva, non produce effetti; e tuttavia, chi conosce profondamente la vita concreta, le aspirazioni, le resistenze e i limiti dei gruppi subalterni possiede già in sé le condizioni per l’azione significativa, perché la storia insegna che il sapere astratto senza radicamento sociale non trasforma mai la realtà, mentre l’azione disgiunta dalla conoscenza si disperde impotente nel tempo e nello spazio.
È allora necessario riconoscere il valore politico dell’amore per la propria terra, non come sentimento nostalgico, ma come forza storica, come capacità di comprendere le esigenze materiali, morali e culturali di chi vive ogni giorno l’ingiustizia, e come condizione per costruire interventi efficaci; senza questa radice, ogni pratica rischia di restare decorativa, impotente davanti alla riproduzione dei rapporti di dominio. L’analisi storica deve sempre essere accompagnata dall’impegno etico e politico, perché la coscienza senza azione è vana, e l’azione senza coscienza rischia di rafforzare ciò che si vorrebbe cambiare.
Inoltre, la questione meridionale si manifesta come problema collettivo: nessuna volontà individuale, per quanto illuminata, può da sola modificare i rapporti di forza che mantengono le disuguaglianze; è necessaria la costruzione di reti, di dialogo tra esperienze e capacità diverse, di pratiche comuni che consentano alle energie delle masse subalterne di trovare sintesi e direzione, perché la trasformazione storica è sempre frutto della combinazione tra coscienza, azione e responsabilità condivisa. L’isolamento, la separazione tra chi conosce e chi agisce, l’egoismo intellettuale o la frammentazione territoriale non possono produrre riscatto, mentre la cooperazione, il riconoscimento reciproco e il confronto rispettoso diventano strumenti essenziali per incidere nella realtà concreta.
Così, la questione meridionale non deve essere intesa come destino immutabile o eredità fatalistica del passato, ma come terreno di lotta storica, dove la coscienza delle masse, l’azione organizzata e la responsabilità civile possono generare trasformazione; essa rappresenta un’opportunità di costruire nuovi equilibri di forza, di mettere in moto le energie latenti delle classi subalterne e di trasformare ciò che appariva come condanna storica in possibilità di emancipazione reale e duratura. Solo così la conoscenza, radicata nella storia concreta, l’impegno etico e l’azione collettiva possono diventare strumenti di riscatto, capaci di costruire una società più giusta e consapevole, dove la riproduzione delle disuguaglianze ceda il passo a una nuova organizzazione della vita sociale, fondata sulla partecipazione reale e sulla responsabilità comune.

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