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Nicola Zitara e la colonia chiamata Italia: il Sud visto con occhi postcoloniali


Di Mario Garofalo 

Ci sono libri che, quando escono, non fanno rumore. O meglio: non lo fanno subito. Restano lì, come mine sotterranee, in attesa che qualcuno ci inciampi sopra e che la verità, sepolta dalla retorica dei vincitori, esploda.
Il saggio di Nicola Zitara L'Unità d'Italia: nascita di una colonia è uno di questi. Pubblicato nel 1971, ignorato dai manuali, scansato dalle cattedre, liquidato con sufficienza dagli stessi intellettuali di sinistra, ha però scavato, anno dopo anno, una voragine sotto i piedi della “favola risorgimentale”.

Zitara, calabrese di Siderno, nato nel 1927 e morto nel 2010, era un giornalista, un militante, un meridionalista senza padroni. Aveva capito – in anticipo su tutti – che l'Italia nacque come “colonia interna”: il Nord trasformato in metropoli, il Sud ridotto a periferia da sfruttare.

La sua idea era chiara, e scandalosa per i benpensanti: l'Unità si presentò come liberazione di un popolo e si rivelò assoggettamento di un altro. Un colonialismo fatto in casa, con i contadini meridionali trasformati in “proletariato esterno” sacrificato sull'altare della nuova borghesia industriale settentrionale.

Nessuna nostalgia borbonica, nessuna contrapposizione tra un Sud monarchico e un Nord repubblicano. Nessun museo del Regno, nessuna bandiera da sventolare. La sua analisi guardava dritta ai rapporti di forza: finanza, esercito, mercato. L'Italia si unificò per concentrare ricchezza e potere al Nord e per svuotare il Sud della sua energia vitale: le braccia degli emigranti e cervelli dei giovani costretti a partire.

Quello che altrove veniva chiamato “colonialismo” – nelle Americhe, in Africa, in Asia – Zitara lo applicò alla penisola. Con un coraggio che gli costò caro: il suo “Movimento meridionale” si spense, i compagni socialisti lo accusarono di separatismo, i politici lo isolarono. Eppure, le sue pagine restano una delle diagnosi più lucide della malattia italiana.

Il Mezzogiorno, scriveva, fu trascinato in una modernità che non gli apparteneva. L'agricoltura di sussistenza, garante di autonomia e dignità, venne smantellata dall'arrivo delle logiche capitaliste. La falsa industrializzazione – fabbriche calate dall'alto, prive di radici – lasciò soltanto cattedrali nel deserto e macerie ambientali. E la gente, la nostra gente, dovette scegliere: partire oppure morire di fame.

Zitara trovò sponde lontane. Dall'altra parte dell'oceano, studiosi e militanti raccontavano la stessa storia di contadini e indios schiacciati da un “progresso” che progressista non era. Cafoni e indios, Sud d'Italia e Sud America: stessi volti, stessi destini. Un parallelismo che Luciano Vasapollo avrebbe raccolto anni dopo, legando gli Appennini alle Ande in un unico filo rosso.

Le intuizioni di Zitara restano attuali. La questione meridionale continua a rappresentare una ferita aperta. Non si tratta di piagnistei né di vittimismo: il dato storico è chiaro, l'Italia nacque coloniale e ancora oggi conserva quella struttura.

Gramsci, negli anni '30, lo aveva intuito parlando di “blocco agrario-industriale” e di alleanze di classe. Zitara lo dimostrò con i numeri, con le storie di famiglie sradicate, con l'analisi di un'economia che non lasciava scampo.

Oggi, rileggere le sue parole fa male. Molto di quello che denunciava è ancora qui: i giovani che emigrano, le campagne abbandonate, i paesi svuotati, l'ambiente avvelenato da un'industrializzazione senza industria. Eppure, quelle stesse pagine restituiscono dignità a chi per troppo tempo è stato trattato come minorenne della storia, come popolazione da educare e non come popolo da ascoltare.

Nicola Zitara offriva uno specchio, non scorciatoie romantiche. Chi ha il coraggio di guardarsi dentro capisce che il Sud appare arretrato perché reso racconto. Che appare inferiore perché posto in condizione di sembrarlo. Che appare sconfitto perché colonizzato.

E da qui, forse, può ripartire.

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