di Mario Garofalo
Chi oggi scorre le fredde cronache giudiziarie del Regno d'Italia, leggendo di un certo Berardino, detto Berardo Viola, vede soltanto un bandito, un criminale da rinchiudere in gabbia come fiera. Così volevano i vincitori, che ai popoli vinti lasciarono soltanto l'infamia. La Storia – quella vera, non quella imposta dai prefetti e dai generali – insegna invece altro: insegna che un uomo, nato libero tra le montagne del Cicolano, divenne brigante per inganno e persecuzione.
Viola non era miserabile; non era il selvaggio che taluni vollero dipingere per dar lustro alle proprie leggi infami. Egli aveva studiato, lavorato, servito come bracciante ed emigrante stagionale; era uomo di fatica, non di delitto. L'avvento dell'Italia piemontese, con le sue coscrizioni forzate, le sue tasse inique e le sue milizie d'invasione, lo precipitò nell'abisso. Quando i soldati di Casa Savoia calarono sul Meridione come sciame di locuste, promettendo libertà e seminando rovine, molti come Viola compresero che l'unità appariva matrigna anziché madre.
Dapprima arruolato, egli servì nell'esercito unitario; osservando la disorganizzazione, l'arroganza e le sconfitte, si volse ai boschi. Così la legge del re lo chiamò “bandito”, mentre il popolo lo acclamava “giustiziere”. Certo, la mano di Viola fu spesso pesante, talora macchiata di sangue innocente. Tuttavia, quale Stato può accusare il brigante, quando esso stesso inaugurerà la sua sovranità con la legge Pica – strumento di terrore che abolì il diritto, colpì interi villaggi, incendiò paesi e fucilò contadini? Quale distanza separa l'omicidio di un uomo nei boschi dalla strage di un popolo per mano di un esercito?
La cosiddetta “banda di Cartòre”, che le gazzette sabaude dipinsero come orda di belve, costituiva in realtà una comunità armata, radicata in quel popolo cui nessun tribunale concedeva voce. Là, tra i monti, si sfogava l'ira contro possidenti avidi, contro spie, contro quegli stessi che lucravano sulle taglie offerte dallo Stato. Più che brigantaggio, guerra: guerra di poveri contro invasori; guerra di popoli fedeli al trono legittimo e all'altare, contro l'avidità dei conquistatori settentrionali.
La forza ebbe ragione della ragione. Anni di carcere, esilio, condanne: così si spense la vita di Viola, consumata tra i muri umidi delle prigioni sabaude e papaline, fino all'ergastolo di Santo Stefano, che lo accolse come sepolcro. Morì vinto, sempre fiero, lasciando dietro di sé una leggenda che ancora oggi divide: per lo Stato brigante, per il popolo martire.
E qui sta il punto: comprendere uomini come Viola significa comprendere l'Italia. L'unità nacque nel sangue, e quel sangue sgorgò soprattutto meridionale. Nacque cancellando ogni voce discordante, ogni protesta, ogni resistenza. Nacque criminalizzando intere comunità. Non furono i briganti a generare la guerra civile: la guerra civile del nuovo Regno generò i briganti.
Perciò, ricordare Berardo Viola non equivale a lodare le sue gesta né a condonare i suoi delitti. Significa ristabilire la verità: il cosiddetto “brigantaggio” costituì il volto armato della questione meridionale, fu protesta disperata di un popolo cui tolsero patria e giustizia. In quel volto, crudele e tragico, l'Italia dovrebbe oggi riconoscere la sua colpa originaria.

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