Di Mario Garofalo
Mi accingo a scrivere non senza una certa riluttanza epistemologica, consapevole che ogni tentativo di restituzione, attraverso la scrittura, la densità storico-antropologica di una figura come quella di Carmine Crocco rischiando inevitabilmente di scivolare o nella trappola celebrativa della contro-mitopoiesi, o nell'astratta e neutra sterilità dell'analisi archivistica. Ma se vi è ancora spazio, nella storiografia meridionalista, per un pensiero che non si lasci ridurre né a revisionismo né a revisionismo del revisionismo, allora l'elaborazione di Crocco come dispositivo discorsivo – prima ancora che come personaggio storico – merita una riflessione più avvertita, meno accessibile, forse, ma più rigorosa.
Nel mio lavoro di ricerca sulle forme subalterne di agency politico-sociale nell'Italia post-borbonica, Crocco si presenta come un "soggetto liminale", ma anche come un agente di contro-istituzionalità: non semplicemente un leader carismatico d'un'insorgenza “atavica”, bensì un mediatore tra ordini giuridici disomogenei, portatore di una legalità parallela che, pur nella sua forma non codificata, risultava dotata di una sua razionalità sistemica. Sotto questa luce, egli non è soltanto interpretabile secondo le griglie storiografiche del brigantaggio politico, ma anche come nodo performativo nella costruzione di un'epistemologia della resistenza contadina.
Non si tratta, pertanto, di recuperare Crocco come eroe nazionale mancato, bensì di scomporre la categoria stessa di “eroe”, mostrandone la costruzione semiotica e il suo radicamento nel monopolio statuale della memoria. Crocco, nel contesto del Vulture e del più ampio spazio sud-continentale, si imponente come struttura di intersezione tra residuità feudale e modernizzazione forzata, tra oralità comunitaria e scrittura giuridica, tra vendetta arcaica e giustizia popolare. È figura di confine, attraversata da tensioni etiche e storiche che la tradizione storiografica di matrice risorgimentale ha ridotto a monadi criminali, funzionali al racconto civilizzatore di una nazione da “redimere”.
Il 5 giugno 1830 non è dunque, a ben vedere, un semplice evento anagrafico, ma il principio di un attrattore storico: un punto genetico da cui si dipanano una serie di linee di forza – genealogiche, topologiche, simboliche – che interrogano lo statuto stesso dell'unità italiana come processo egemonico. Il Crocco infante non è, in sé, nulla di più che un figlio di braccianti, ma il Crocco che crescerà – passando dall'arruolamento all'esecuzione sommaria, dalla latitanza alla riorganizzazione militare – finirà per incarnare quella frattura epistemica che il Nord borghese e centralista non seppe (o non volle) comprendere: la persistenza di una sovranità popolare endogena, non statuale ma non per questo priva di forma.
A livello metodologico, credo che il suo studio vada evitando sia l'agiografia popolare che la reductio criminis. Le fonti giudiziarie, per quanto utili, sono già intrise di sovradeterminazione ideologica; gli atti parlamentari, altrettanto. È solo nel contro-discorso orale, nelle ballate trasmesse nei paesi del Vulture, negli atti minori della quotidianità insorgente – che raramente entrano nelle fonti ufficiali – che si può tentare una decostruzione fenomenologica della sua figura.
La leadership di Crocco, difatti, non fu soltanto militare: fu ontologica. Egli non comandava, bensì rappresentava. Era il corpo attraverso cui il Sud parlava a se stesso, si riconosceva, si difendeva, pur senza mai assurgere a sistema ideologico compiuto. Questa è la sua grandezza tragica: essere stato un medium storico di forze sociali che non trovarono mai istituzionalizzazione. La sua caduta, l'arresto, la lunga protezione all'Isola d'Elba non segnano solo la sconfitta di un uomo, ma la fine – provvisoria, ma devastante – di una possibilità altra di essere Stato.
Resta, oggi, il suo nome come segno eccedente: Carmine Crocco, non più solo individuo, ma campo semantico, sintomo non riassorbito. E se ancora oggi, in certi ambienti accademici, nominarlo suscita un misto di imbarazzo e resistenza, è forse perché la sua figura ci ricorda che l'Italia non è mai stata una vera totalità, ma un mosaico incompleto, in cui alcune tessere furono ignorate perché eccedenti, irriducibili, scomode.
Questo Crocco – non l'eroe, non il brigante, ma il punto di torsione tra ordine e caos – resta ancora oggi una figura di frontiera per chi, come me, si ostina a pensare che la storia non sia affare di coerenza narrativa, ma di vertigini interpretative.

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