di Mario Garofalo
È necessario considerare, senza pregiudizi, che il fenomeno del brigantaggio postunitario, così come lo documenta Franco Molfese nel 1964, costituisce espressione concreta delle contraddizioni fondamentali tra le masse contadine del Sud e lo Stato nazionale emergente, il quale, pur proclamando libertà e unità, impone con la forza norme e vincoli economici e militari che riducono a miseria e sottomissione la vita quotidiana delle popolazioni subalterne. In questa prospettiva i briganti appaiono come soggetti che, pur nella loro frammentarietà organizzativa, cercano di affermare una propria autonomia di fronte al nuovo ordine borghese, rivelando che la resistenza del popolo si manifesta in forme concrete di opposizione, di sopravvivenza e, infine, di dignità anche a costo della vita.
L’azione repressiva dello Stato, con centoventimila uomini inviati contro poche migliaia di insorti, con villaggi incendiati, civili fucilati e terre occupate, rappresenta un tentativo di cancellazione dei corpi sociali che resistono, di annientamento delle esperienze autonome delle comunità locali; tuttavia, le bande di Crocco, Ninco Nanco, Schiavone, Chiavone e il Sergente Romano resistono quasi un decennio, sostenute dalla solidarietà delle popolazioni, rivelando che lo Stato non riesce a penetrare interamente in quei territori e che esistono spazi di vita autonoma, praticati dal popolo come forma di esistenza alternativa e di resistenza morale e materiale.
È significativo osservare come il termine “brigante”, imposto dallo Stato e dai gruppi restauratori, funzioni come strumento per delegittimare la rivolta, trasformando la lotta dei subalterni in colpa individuale, oscurando così le ragioni collettive della resistenza; la repressione legale, attraverso la Commissione Parlamentare del 1862 e la Legge Pica del 1863, sospende i diritti civili, trasferisce i processi ai tribunali militari, provoca decine di migliaia di morti, arresti e deportazioni e devasta interi territori: si tratta, senza esitazione, di un olocausto silenzioso, una delle manifestazioni più dure e nascoste della modernità italiana, che dimostra come la costruzione dello Stato nazionale comporti per le classi subalterne sconfitta ed esclusione.
Il brigantaggio, considerato in questa prospettiva, appare come forma di lotta di classe, espressione dell’opposizione dei ceti subalterni alla borghesia agraria e allo Stato centralizzato, rivendicazione culturale e identitaria, resistenza alla perdita di autonomia e alla violenza della modernità. Si configura come guerra civile tra italiani diversi, tra visioni contrapposte di patria e futuro, tra mondi che non si riconoscono reciprocamente, e dimostra che la coscienza politica del popolo si manifesta anche quando ha ancora sviluppato forme organiche di rappresentanza.
Rileggere Molfese oggi significa sforzarsi di guardare l’Italia dal basso, osservare le campagne bruciate, i villaggi assediati, gli uomini e le donne che combattono per la propria dignità, comprendere che l’unità nazionale, celebrata come conquista della modernità, comporta per molti una sconfitta: i briganti erano cittadini privi di patria, ignorati da uno Stato che li voleva cancellare, e la domanda che permane risulta inevitabile: chi furono i briganti, se non coloro che cercarono di resistere contro un’Italia che rifiutò di riconoscerli come suoi figli?

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